La solitudine è l’animale che abita lo spazio tra la mia pelle e i muscoli che corrono poco più sotto. E’ un’inquilina scomoda, mi devasta, prende sempre più spazio e non paga mai l’affitto. Quando ho capito di essere sola era ormai troppo tardi, me ne stavo in piedi davanti a una finestra del mio appartamento di Parigi, era notte, fuori non c’erano altro che altre anime in pena come me. Il mio corpo era nudo e freddo e i miei occhi cercavano qualcosa oltre la linea dell’orizzonte, senza però essere in grado di dare una forma, una dimensione, senza concetti da trovare oltre a quella dannata linea di demarcazione fra ciò che conoscevo e l’ignoto. Proiettata com’ero verso mondi lontani non avevo compreso quanto vicina invece fosse l’arma per sconfiggere quel male che sentivo crescere dentro, la mia medicina era un cuore pulsante dentro la pancia, quella pancia che d’istinto mi aveva fatto agire e che in quei momenti, l’avessi ascoltata di più, mi avrebbe potuto salvare da quella voragine che tutto inghiottiva e non riconsegnava ai miei domani null’altro che lacrime silenziose di donna senza punti di riferimento ai quali aggrapparsi.
Io oggi non sono più sola, ho al mio fianco Marie, la figlia che da sempre desideravo e che nel modo peggiore ho avuto, il padre di questa piccola gioia non potrà più essere il suo punto di riferimento, così come non è potuto essere il mio, prima per volontà, ora per l’inevitabile conseguenza di eventi, che come troppo spesso accade sono più grandi anche delle decisioni coraggiose che prendiamo, dell’orgoglio che accantoniamo, delle urla che ingoiamo e della vita che, nonostante tutto, andrà sempre e comunque avanti.