Paolo Panzacchi
L'ultima stazione del mio treno

L’ultima stazione del mio treno

23/06/16 L'ultima stazione del mio treno

I piedi nella sabbia

I piedi nella sabbia

Il nostro tempo è un nido felice in cui vivere senza pensieri.

La libertà è lo sguardo perso oltre un tramonto dai mille colori ascoltando il proprio respiro, osservare i movimenti del petto sincronizzati con la delicata brezza propria dei paesaggi di mare alla sera. Le parole sarebbero un inutile spreco di tempo, fatica e voglia di vivere. Così sarebbe bello rimanere, ad ascoltare le onde e quello che non si dice. Con i piedi nella sabbia loro, sì, liberi sempre.

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25/03/16 L'ultima stazione del mio treno

Le morti necessarie

Le morti necessarie

La mano è salda, la mente è forte, l’occhio vede lontano. Il resto è solo la velocità del piombo, l’esplosione del fuoco e la precisione del mio strumento. Dall’altra parte della collina i rumori, gli odori, i colori, che parlano di morte, di un corpo che cade. Le morti necessarie. Un giorno sarà necessaria anche la mia, oggi non lo è, lo penso e lo ripenso, mentre con rapidità smonto il mio SAKO e torno nell’ombra della quale mi nutro, nella quale abito, ventre molle e matrigno che mi ha sputato fuori alla luce del sole malato che tenta, invano, di riportarci alla luce.

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12/03/16 L'ultima stazione del mio treno

Il giusto riposo

Il giusto riposo

La guerra, quella vera, dicono i vecchi, l’abbiamo vissuta noi. Conosciuta tra le pieghe della fame, del terrore e nell’umido delle lacrime che abbiamo finito, piangendo solo con la voce spezzata, perché era quella l’unica cosa che ci era rimasta. Questo dicevano i vecchi, la memoria storica di ciò che è stato. Voi giovani, le loro frasi iniziano sempre così. Noi giovani cosa ne sappiamo, pensano loro. Questa cosa mi fa arrabbiare, così tanto che, quella di guerra di cui parlano loro, gliela porterei ancora, con tutta la forza di cui sono capace, la farei tornare nei loro giorni, nelle loro case. Oggi io sono un soldato, non di quelli ufficiali, di quelli senza bandiera, senza onore. Io combatto perché non ho avuto scelta, loro hanno avuto medaglie, ricordi, compagni con cui ricordare. Io ho il tempo di una Marlboro di contrabbando per fermarmi e riflettere prima che il vento ricominci a soffiare nella speranza che una raffica non mi porti via.

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29/02/16 L'ultima stazione del mio treno

Vent’anni

Vent’anni

Avevo solo vent’anni.

Mia madre era morta, mio padre non aveva voluto saperne, avevo già conosciuto l’omicidio, la guerra, l’odore della polvere da sparo, della carne umana bruciata. Avevo già ascoltato parole oscure da chi avrebbe dovuto preservare l’ordine e garantire futuro alle generazioni a venire, avevo già sentito l’urlo straziante di una madre a cui erano stati uccisi i figli. Avevo visto sangue, morte, incrociato occhi ai quali era stato negato ogni possibile futuro se non quello verniciato d’odio e rancore.

Avevo solo vent’anni.

Oggi ne ho quarantacinque, sono ancora qua, il mondo non è cambiato. Si sacrifica la dignità di oggi in nome delle guerre che faremo domani, domani guadagnerò ancora il mio pane, il mio vino e le mie cicatrici.

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24/02/16 L'ultima stazione del mio treno

Le cose che tolgono

Le cose che tolgono

Una vecchia tazza di latta piena d’acqua piovana giace ai piedi di un letto, un giaciglio di ferro e cartone. Disumano. Inospitale. Ghiacciato. La stanza in cui un uomo sta riposando somiglia più a una di quelle che avremmo potuto trovare in uno di quei manicomi lager degli anni settanta nel nostro paese. Qua non siamo in Italia, però. Ci sono alcuni chilometri che separano quello che viene considerato un uomo nonostante abbia solo vent’anni e quella che un tempo lui avrebbe anche potuto chiamare casa, se solo glielo avessero permesso. Lui è diventato uomo, secondo quello che è stato uno dei suoi comandanti in passato, dopo il primo colpo andato a segno, dopo aver tolto la vita per la prima volta. Tutto il resto è stato automatismo, movimenti muscolari, null’altro.

Gianni si alza, accende una Camel avendone prima tolto il filtro. Beve un sorso d’acqua dalla tazza di latta. Si gode un momento di nulla, di pensieri sciocchi, di voglia di qualcosa di buono da mangiare, il ricordo dell’odore del pane e quella sensazione piacevole delle lenzuola pulite sul proprio corpo nudo.

Ricorda ciò che non c’è.

Ricorda quel che può.

La Camel è a metà mentre gli occhi di Gianni cadono su un cartello stradale al di fuori della finestra della stanza. Vukovar recita la scritta. Croazia. Oggi è il 31 agosto 1991, da qualche giorno l’Armata Popolare Jugoslava sta assediando la città. Lui riceverà duecentomila dollari appena ucciderà il comandante degli assedianti. I croati e gli americani pagano bene, pensa mentre carica il proprio fucile Sako ed esce dal suo nascondiglio, affamato di soldi, sangue e morte, avendo ben presente da dove nasca il suo odio, da una mancanza, come tutte le cose che tolgono e non danno, mai.

 

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18/01/16 L'ultima stazione del mio treno

Il proiettile nella neve

Il proiettile nella neve

Il freddo del piombo, il freddo della neve, il freddo delle anime compromesse, che nulla dimenticano e tutto ricordano. Senza pietà. I pensieri che non si possono raccontare, l’odio che non si può dire, la voglia e il desiderio di non lasciar correre e di essere lama affilata che non perdona. Il passato altro non sarà che la prima carneficina di una macchina da guerra che non saprà mai pronunciare parole d’amore, ma che costruirà il perfetto meccanismo marcio che genera solo disperazione.

Se solo l’innocente con l’indice sul grilletto di un fucile sapesse su cosa si apriranno le porte dopo che avrà esercitato la sufficiente pressione e centrato in pieno la prima forma di vita. Se solo sapesse, immaginasse, capisse. Se qualcuno glielo raccontasse. Una madre, un padre.

Nessuno.

Con lui la guerra in carne e ossa.

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29/12/15 L'ultima stazione del mio treno

Il mattino si sveglia sempre prima di te

Il mattino si sveglia sempre prima di te

Il mattino si sveglia sempre prima di te, a meno che tu non sia in guerra, allora quella è tutta un’altra storia. Una di quelle brutte. Gianni ha messo da qualche istante un vecchio samovar su un piccolo fornello da campo mangiato dalla ruggine, accanto a lui si riposano due uomini: un iracheno e un francese. L’iracheno si chiama Sharif Kamal Al Maliki è un ex Sergente della Guardia Repubblicana di Saddam Hussein. Sharif ha disertato dopo aver conosciuto Gianni in un albergo di Baghdad un paio d’anni dopo Desert Storm. Vuoi vivere o vuoi morire? Voi cosa rispondereste? Il francese invece si chiama Jacques De Sertas ed è un ex Colonnello del Dgse, i servizi segreti di Francia. Lui ha smesso di servire il proprio paese quando gli fu ordinato di non interferire durante un’operazione di pulizia etnica messa in atto dai reparti dell’esercito regolare del Mali durante una delle mille guerre dimenticate d’Africa. Lui disobbedì: salvò oltre venti bambine dall’orrore degli stupri di guerra e per non farsi mancare nulla poco prima di far perdere le sue tracce aprì un buco in testa al Generale Ardan, capo dei Caschi Blu dell’ONU che avrebbero dovuto vigilare e che nulla fecero. Gianni era un Maggiore del BND, l’agenzia d’intelligence della Germania, lui ha disertato in Siria, sedotto dai denari della famiglia al potere in quel paese e dalla possibilità di fare davvero qualcosa di importante nella propria vita che gli consentisse di dimenticare quello che nessuno può cancellare: le lacrime di sua madre.

Oggi loro tre sono in un appartamento di un palazzo abbandonato alla periferia ovest di Groznyj, in Cecenia. Tra qualche minuto berranno un tè, verificheranno le munizioni delle loro armi e si prepareranno a un’azione spettacolare e poi alla loro fuga verso lidi più tranquilli, verso Zurigo. Raggiungeranno un piccolo Cessna nascosto in una radura nella zona nord della città, poco oltre ciò che resta dell’aeroporto. Gianni versa il tè in tre piccole tazze di ceramica blu.

Jacques e Sharif si svegliano quasi contemporaneamente e lo salutano entrambi con un cenno del capo. I tre stringono le tazze tra le mani e prendono frequenti e brevi sorsi. Gianni offre una sigaretta agli altri due. Mentre fumano cominciano i preparativi di quella che dovrebbe essere la battaglia definitiva per la riconquista della città da parte delle truppe cecene guidate dal Generale Dudaev. Sharif controlla i caricatori del proprio Ak-47 e riempie di munizioni quelli parzialmente completi, Jacques carica con cura il proprio Vintorez e sistema un mirino telescopico PSO, un ‘eccellente strumento di tiro che gli permetterà di essere potente ed elegante. Gianni carica un Rpg con un proiettile incendiario e inserisce un caricatore nel suo mitragliatore Sig Sauer SG 550. Dopo qualche istante, una luce abbagliante ottenuta con un gioco di specchi proveniente da un vecchio deposito alimentare lungo una delle direttrici principali della città, fa capire a Jacques che il segnale da uno degli uomini di Dudaev è arrivato. La partita può cominciare. Quando arrivano gli Specnaz, i reparti speciali russi, roba pesante, gente che picchia duro, li puoi sentire a centinaia di metri di distanza. Mezzi corazzati, armi di grosso calibro e un una nenia che altro non è che il loro modo di cantare la guerra che stanno combattendo.

Gianni guarda i suoi due compagni, “Ci siamo?”, loro annuiscono con un cenno vigoroso del capo, tutti e tre conoscono alla perfezione la parte che dovranno recitare in questo spettacolo. Il piano è di far entrare il battaglione di Specnaz nel quadrante che è stato minato dagli uomini di Dudaev, Jacques dovrà eliminare il Colonnello Berzej con un tiro di precisione, mentre Gianni e Sharif con due proiettili di Rpg colpiranno i due carri armati alla testa della colonna. Durata dell’operazione? Al massimo un minuto, poi esploderà un quartiere intero con le cariche che hanno piazzato e se la vedranno i ceceni e la loro voglia di libertà.

Gianni fa un cenno a Sharif appena vede il primo carro armato T-72 apparire all’orizzonte, l’iracheno appoggia una mano sulla spalla di Jacques che annuisce, dando conferma di aver visto il proprio obiettivo. Il Colonnello Berzej è sulla torretta del T-72 a circa trecento metri da Jacques, il francese regola l’ottica del proprio fucile di precisione, non fallisce un tiro da oltre un anno, la fronte del Colonnello al centro del mirino. Un sospiro: addio. Gianni e Sharif fanno partire all’istante due razzi dai loro Rpg e centrano in pieno il T-72. Poi come se l’inferno fosse caduto sulla terra giungono decine di esplosioni, le bombe hanno fatto il proprio lavoro, così come i nostri tre mercenari che stanno guadagnando con velocità l’uscita dell’edificio.

I tre raggiungono a bordo di una vecchia Lada la radura dove avevano nascosto il piccolo aereo nei giorni precedenti l’azione. Sharif è entusiasta, si accende una sigaretta ed esclama: “Li abbiamo fatti a pezzi! Chissà le loro facce!”. Gianni estrae una Marlboro dal pacchetto, la accende e sorride all’iracheno, “Già, chissà le loro facce…”, poi estrae una Glock 17 e la punta verso la fronte di Sharif, “Beh, potresti rimanere qui a guardarle!”. In un attimo un colpo e l’iracheno cade a terra ucciso. Gianni prende una lunga boccata e s’incammina verso l’aereo, poi si blocca di colpo sentendo Jacques scarrellare per mettere un colpo in canna della propria Sig Sauer P220. Gianni impugna la propria arma e si volta di scatto. I due si tengono reciprocamente sotto scacco. Poi Gianni scoppia a ridere e prende una nuova boccata dalla propria sigaretta, “Avanti Jacques, andiamo, tra una settimana ci tocca il Kosovo.”.

Il francese abbassa l’arma e segue Gianni accendendosi a sua volta una Gitanes senza filtro. “Come sapevi che non ti avrei sparato?”, Gianni apre il portello del Cessna, si volta e gli sorride, “Non lo sapevo, ho improvvisato.”.

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10/10/15 L'ultima stazione del mio treno # ,

Sorella

Sorella

Alessia aveva parcheggiato il suo suv non troppo lontano dalla chiesa di Santa Chiara. Tutte presero posto, lei accese il motore e l’auto ruggì mentre Alessia la lanciava a tutta velocità. Folle, come suo fratello, le altre a bordo con lei non dissero nulla. Elena strinse Marie.

Alessia era davvero brava a rompere i silenzi, decelerò gradualmente e cominciò a raccontare un episodio di quando lei e Guglielmo erano ancora complici, quando lui non aveva ancora imboccato definitivamente la strada della follia. Guglielmo amava da impazzire correre in auto. Con il ricavato del primo contratto editoriale che spuntò per la sua raccolta di racconti comprò una Jaguar XJ8 del 1969 usata. Blu, bellissima. Lui ha sempre amato quelle vetture inglesi così eleganti. Diceva che gli sembrava di essere una persona importante seduto al volante di quella auto, di essere qualcuno che nostro padre avrebbe potuto stimare.” Alessia interruppe per un istante il racconto, respirò, poi ricominciò con fatica. “Quel giorno mi portò a mangiare il pesce in riviera, a Cesenatico. Arrivammo in un lampo, per un tratto sfiorò addirittura i 250 chilometri l’ora. Io ero terrorizzata, lui invece rideva, era felice. Quel giorno lo fece spesso. Forse quel modo di prendere le cose, di affrontare la vita era il suo modo di sentirsi libero, rischiare tutto senza limiti, remore e senza la paura di perdere ogni cosa, negandosi nulla. Lo ricordo ancora, una volta che arrivammo al ristorante, seduto su una sedia con una sigaretta tra le dita e quel ghigno storto mentre aspettava di vedere qualche mia reazione, scoprire che effetto mi avesse fatto vivere per qualche attimo pericolosamente, come a lui piaceva.”.

Alba rise di gusto, Elena si limitò a sorridere, Nathalie alzò le spalle, ma dentro le si spalancò un sorriso grande come il cuore. Quello che mancò in quel primo istante tutte insieme fu il coraggio di leggere le parole che ognuna di loro aveva pensato per Guglielmo facendole rimanere solamente lacrime d’inchiostro su inutili fogli bianchi.

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20/09/15 L'ultima stazione del mio treno

Parole

Parole

Possono essere tutto come niente. Contengono, travolgono, arricchiscono, separano, uniscono, raccontano, inquietano, feriscono, fanno innamorare, fanno incazzare, nascondono, svelano.

Uccidono.

Sì, anche.

Statene alla larga.

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06/09/15 L'ultima stazione del mio treno # ,

Rabbia

Rabbia

Vorrei essere seduta davanti al Blackfriars Bridge, non è un luogo come tanti altri, ha una storia, ha qualcosa che mi attrae. Mi piacerebbe respirare un’aria malvagia, malsana, quello che per me è ossigeno, mentre per altri sarebbe solamente un’inalazione di pura inquietudine e rabbia. “Ma cos’è poi questa rabbia di cui parlano tutti?”. Dopo questa domanda credo mi siederei sulla banchina davanti al fiume imponente e mi accederei una Camel blu e valuterei bene come continuare questa serie di pensieri. Butterei fuori una nuvola di fumo e continuerei. La rabbia è uno stato fisico, non ha nulla a che fare con l’anima per come la vedo io. Sudore, brividi di freddo anche nelle notti più calde e afose, quella deliziosa sensazione di battiti a vuoto, quando senti che il petto possa scoppiarti o quando pensi che il tuo stomaco possa dilatarsi all’infinito sino ad ingoiarti per intero”. Il fiume scorrerebbe e io osserverei ciò che di giorno potrebbe essere di un colore che somiglia a un blu intenso e che di notte si proporrebbe nero, oscuro, come l’inganno dell’uomo, nero e malato come ciò che incontro ogni giorno.

Adoro pensare a quello che vorrei.

Io sono Cat e posso desiderare ogni cosa.

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Fazzoletto da tasca colorato, occhiali sulla punta del naso per darmi un tono, centomila idee nelle tasche e bollicine nel bicchiere. Questo sono io.
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