Sono arrivato presto alla stazione, una domenica mattina di Gennaio, faceva freddo, una fitta nebbia avvolgeva questa grande infrastruttura della mia città.
I miei bagagli non erano molti: una valigia con qualche camicia e maglione, due paia di jeans, un abito elegante, qualche libro e un portatile dove scrivere l’unica storia che avessi davvero voglia di raccontare: la mia.
Il mio treno è arrivato, stancamente, al binario. Il respiro prima di entrare nel vagone, la contrazione muscolare nel alzare la valigia, il primo passo verso il futuro.
La prima stazione del mio treno.
Il bello di fermarsi ad ogni stazione è il poter vedere le persone: nei loro atteggiamenti, nei loro movimenti, chi parte, chi resta, chi nel saluto vive e chi nel saluto muore. La vita si divide solo così: c’è chi vive e chi muore. Tutto il resto è congettura, pettegolezzo e masturbazione degli eventi.
Il mio treno è vuoto: decido io chi sale e quando, decido io chi scende e quando. Il mio treno è puntuale e non ritorna. Il mio treno fa un solo viaggio.
La seconda stazione del mio treno.
La comprensione passa per la condivisione che passa per l’empatia che passa per la sensibilità che passa per il diventare Uomini che passa per non ragionare con l’uccello.
La terza stazione del mio treno.
Le soluzioni partono dalle domande, non dalle risposte.
La quarta stazione del mio treno.
Diffida di chi non ha vizi, scheletri nell’armadio, diffida di chi non fa altro che sorridere, di chi è sempre pronto a giurare, di chi non ha paura di morire e di chi rifiuta di farsi un drink con te. La diffidenza non è mancanza di rispetto, ma è rispetto del proprio futuro e salvaguardia del terreno che calpestiamo.
La quinta stazione del mio treno.
Poe sosteneva che un giorno l’abisso a forza di essere guardato avrebbe voluto, poi, guardare in noi, la mia quinta stazione è l’abisso, perchè io sono più curioso di lui.
La sesta stazione del mio treno.
E’ il posto dove ci si guarda negli occhi e si fa sul serio, dove si capisce chi il coraggio lo vende e chi ne ha da vendere ma se lo tiene stretto e lo usa per crescere. Qua non si aspetta la gente che corre, che parte in ritardo da casa o che altro da fare.
Anche i viaggi belli finiscono, si scende, si radunano i bagagli, si raccolgono i pensieri fatti durante il tragitto e si pulisce il sangue dalle scarpe: se ne pesta di gente morta quando si arriva alla fine di un percorso ad ostacoli.
Si accende una sigaretta, magari l’ultima di una lunga serie, magari.
L’ultima stazione del mio treno.
Si chiama il taxi e si torna a casa un po’ più vivi di quando si è partiti.