L’ultima intervista, uscito per Maglio Editore è ufficialmente disponibile da ieri. Nei prossimi giorni i dettagli sulle date delle presentazioni.
L’ultima intervista, uscito per Maglio Editore è ufficialmente disponibile da ieri. Nei prossimi giorni i dettagli sulle date delle presentazioni.
Vorrei essere seduta davanti al Blackfriars Bridge, non è un luogo come tanti altri, ha una storia, ha qualcosa che mi attrae. Mi piacerebbe respirare un’aria malvagia, malsana, quello che per me è ossigeno, mentre per altri sarebbe solamente un’inalazione di pura inquietudine e rabbia. “Ma cos’è poi questa rabbia di cui parlano tutti?”. Dopo questa domanda credo mi siederei sulla banchina davanti al fiume imponente e mi accederei una Camel blu e valuterei bene come continuare questa serie di pensieri. Butterei fuori una nuvola di fumo e continuerei. “La rabbia è uno stato fisico, non ha nulla a che fare con l’anima per come la vedo io. Sudore, brividi di freddo anche nelle notti più calde e afose, quella deliziosa sensazione di battiti a vuoto, quando senti che il petto possa scoppiarti o quando pensi che il tuo stomaco possa dilatarsi all’infinito sino ad ingoiarti per intero”. Il fiume scorrerebbe e io osserverei ciò che di giorno potrebbe essere di un colore che somiglia a un blu intenso e che di notte si proporrebbe nero, oscuro, come l’inganno dell’uomo, nero e malato come ciò che incontro ogni giorno.
Adoro pensare a quello che vorrei.
Io sono Cat e posso desiderare ogni cosa.
Il disagio è l’aria che respiro, il cibo che mangio, la pelle che bacio, le mani che sfioro, è nelle parole che ascolto. Il disagio è il mio migliore amico, mi avvolge come le coperte calde durante l’inverno rigido, mi tiene al riparo dalla vita che non voglio più conoscere e che non riconosco più. Sono in piedi davanti a una finestra molto grande, occupa quasi tutta la parete alla destra del mio letto nella camera d’albergo che sto occupando qui a Parigi. Mi piace osservare senza essere visto, è una sensazione piacevole l’anonimato, sentirsi invisibili, sembra quasi di essere Dio, è divinità senza tutte quelle altre cose che sarebbero implicate, è come fare il portoghese sull’autobus, sulla metro. Ebbrezza ad alto rischio. Il buio è fatto per essere scrutato, indagato, scandagliato, è là davanti ai nostri occhi, come una terra vergine pronta per essere esplorata, non chiede altro che un capitano di ventura, brama passi coraggiosi e decisi, non è ammessa l’insicurezza. Al primo piede in fallo, gesto poco deciso o chissà cos’altro nel campionario delle possibili anticamere del fallimento il buio, il nero, l’abisso si desterebbe da questo tepore cordiale e poserebbe i suoi occhi di fuoco nei nostri e, da quel momento, quello sarebbe il nostro abisso. Lo conoscete? Lo avete visto? Vi ha già guardato? Sì. E’ quella sensazione di pesantezza alla bocca dello stomaco, è l’aria che manca nei polmoni, è la bocca che si apre, si apre, si apre e non sa più parlare e i vostri occhi già cercano aiuto senza che questo possa mai arrivare.
In quest’albergo non si può fumare, allora mi limito a stringere una Camel fra le dita, la accarezzo, ci gioco, la passo da una mano all’altra, faccio come se potessi bruciarmici i polmoni, così, per calmarmi un po’. Le cose cambiano, il presente corre ed è già passato perché mentre mi rendo conto di viverlo c’è già un futuro del quale dovrò rendere conto. Sto male, vivo male. Ho tutto, ma mi limito a tirare a campare e a complicarmi le cose, mi crogiolo in questa sensazione morbida e calda che è la depressione, che è il male di vivere, che è, appunto, il disagio.
Questa è la mia ultima notte sulla terra e la dipingo così, come tutte le altre.
Mia madre, l’ultima volta che l’ho vista, mi ha chiesto un bacio prima di andare via, l’ho solo accarezzata, la lacrima che ho sulla guancia ora forse è per questo. Indosso il mio abito migliore: il cinismo addormentato sulla nuvola di quello che sarebbe potuto essere e non è stato.
Questa è la mia ultima notte sulla terra e sto parlando con me stesso per la prima volta.
Questa è la mia ultima notte sulla terra e va bene così.
La paura, la conosco bene quella cosa lì, io sono come sono oggi solo grazie, o meglio, per colpa della paura e di ciò che ha significato per me provare quella sensazione. La prima volta è stato molto tempo fa, ero una bambina, ero a casa con mio fratello, i nostri genitori si erano allontanati per una commissione. Io avevo cinque anni e lui sette. Fuori imperversava un temporale, tuoni, fulmini, vento forte, insomma c’era l’inferno al di là di quelle finestre e per un bambina piccola non è qualcosa di facile da gestire, ma se al tuo fianco c’è tuo fratello più grande magari la cosa potrebbe essere meno difficile. D’un tratto un fulmine cadde non troppo lontano da una centralina elettrica e la luce abbandonò le case del nostro quartiere romano della prima periferia. Ricordo ancora la sensazione che mi prese dritta alla gola, quasi volesse soffocarmi, mi sentivo spaesata, il buio mi inghiottì facendomi perdere ogni riferimento, cercai mio fratello, che avrebbe dovuto essere a pochi passi da me, ma lui non si fece trovare, lasciandomi in balia dello smarrimento. Poi mi apparse davanti al viso, mentre con una torcia si stava illuminando il volto, ridendo in modo sguaiato, solo per il gusto di farmi paura. Urlai, terrorizzata, qualcosa mi fece trovare la forza di afferrare la torcia che lui teneva fra le mani e poi, senza nemmeno rendermene conto, cominciai a picchiarlo. Non mi limitai a uno schiaffo, non mi limitai a sbattergli sul capo la torcia una, due, tre, quattro, cinque, sei volte, quella forza oscura mi fece prendere la testa di Marco e me la fece sbattere sul pavimento alcune volte. In quel momento tornarono i nostri genitori, tornò la luce e tutto il mondo mi vide coperta dal sangue di mio fratello, dalle lacrime del terrore, abbandonata da quella forza che tutto questo mi aveva fatto fare, abbandonandomi al destino di essere considerata una violenta, una pazza, senza nessuno che pensasse al fatto che fossi solo una bambina spaventata.
La solitudine è l’animale che abita lo spazio tra la mia pelle e i muscoli che corrono poco più sotto. E’ un’inquilina scomoda, mi devasta, prende sempre più spazio e non paga mai l’affitto. Quando ho capito di essere sola era ormai troppo tardi, me ne stavo in piedi davanti a una finestra del mio appartamento di Parigi, era notte, fuori non c’erano altro che altre anime in pena come me. Il mio corpo era nudo e freddo e i miei occhi cercavano qualcosa oltre la linea dell’orizzonte, senza però essere in grado di dare una forma, una dimensione, senza concetti da trovare oltre a quella dannata linea di demarcazione fra ciò che conoscevo e l’ignoto. Proiettata com’ero verso mondi lontani non avevo compreso quanto vicina invece fosse l’arma per sconfiggere quel male che sentivo crescere dentro, la mia medicina era un cuore pulsante dentro la pancia, quella pancia che d’istinto mi aveva fatto agire e che in quei momenti, l’avessi ascoltata di più, mi avrebbe potuto salvare da quella voragine che tutto inghiottiva e non riconsegnava ai miei domani null’altro che lacrime silenziose di donna senza punti di riferimento ai quali aggrapparsi.
Io oggi non sono più sola, ho al mio fianco Marie, la figlia che da sempre desideravo e che nel modo peggiore ho avuto, il padre di questa piccola gioia non potrà più essere il suo punto di riferimento, così come non è potuto essere il mio, prima per volontà, ora per l’inevitabile conseguenza di eventi, che come troppo spesso accade sono più grandi anche delle decisioni coraggiose che prendiamo, dell’orgoglio che accantoniamo, delle urla che ingoiamo e della vita che, nonostante tutto, andrà sempre e comunque avanti.
Con gioia annuncio la firma del contratto di edizione de “L’ultima intervista” con Maglio Editore, il romanzo uscirà in autunno. Elena, Alba e Guglielmo torneranno a fare danni, dopo averli conosciuti nelle pagine di Dreamin’ vicious ora potrete apprezzarli ancora di più. Amore, disagio, inquietudine, passione e sfrontatezza assoluta saranno i protagonisti di queste pagine.