La città brucia.
Il popolo è scappato.
Solo il Re rimane.
E brucia.
La città brucia.
Il popolo è scappato.
Solo il Re rimane.
E brucia.
Il disagio è l’aria che respiro, il cibo che mangio, la pelle che bacio, le mani che sfioro, è nelle parole che ascolto. Il disagio è il mio migliore amico, mi avvolge come le coperte calde durante l’inverno rigido, mi tiene al riparo dalla vita che non voglio più conoscere e che non riconosco più. Sono in piedi davanti a una finestra molto grande, occupa quasi tutta la parete alla destra del mio letto nella camera d’albergo che sto occupando qui a Parigi. Mi piace osservare senza essere visto, è una sensazione piacevole l’anonimato, sentirsi invisibili, sembra quasi di essere Dio, è divinità senza tutte quelle altre cose che sarebbero implicate, è come fare il portoghese sull’autobus, sulla metro. Ebbrezza ad alto rischio. Il buio è fatto per essere scrutato, indagato, scandagliato, è là davanti ai nostri occhi, come una terra vergine pronta per essere esplorata, non chiede altro che un capitano di ventura, brama passi coraggiosi e decisi, non è ammessa l’insicurezza. Al primo piede in fallo, gesto poco deciso o chissà cos’altro nel campionario delle possibili anticamere del fallimento il buio, il nero, l’abisso si desterebbe da questo tepore cordiale e poserebbe i suoi occhi di fuoco nei nostri e, da quel momento, quello sarebbe il nostro abisso. Lo conoscete? Lo avete visto? Vi ha già guardato? Sì. E’ quella sensazione di pesantezza alla bocca dello stomaco, è l’aria che manca nei polmoni, è la bocca che si apre, si apre, si apre e non sa più parlare e i vostri occhi già cercano aiuto senza che questo possa mai arrivare.
In quest’albergo non si può fumare, allora mi limito a stringere una Camel fra le dita, la accarezzo, ci gioco, la passo da una mano all’altra, faccio come se potessi bruciarmici i polmoni, così, per calmarmi un po’. Le cose cambiano, il presente corre ed è già passato perché mentre mi rendo conto di viverlo c’è già un futuro del quale dovrò rendere conto. Sto male, vivo male. Ho tutto, ma mi limito a tirare a campare e a complicarmi le cose, mi crogiolo in questa sensazione morbida e calda che è la depressione, che è il male di vivere, che è, appunto, il disagio.
Questa è la mia ultima notte sulla terra e la dipingo così, come tutte le altre.
Mia madre, l’ultima volta che l’ho vista, mi ha chiesto un bacio prima di andare via, l’ho solo accarezzata, la lacrima che ho sulla guancia ora forse è per questo. Indosso il mio abito migliore: il cinismo addormentato sulla nuvola di quello che sarebbe potuto essere e non è stato.
Questa è la mia ultima notte sulla terra e sto parlando con me stesso per la prima volta.
Questa è la mia ultima notte sulla terra e va bene così.
La paura, la conosco bene quella cosa lì, io sono come sono oggi solo grazie, o meglio, per colpa della paura e di ciò che ha significato per me provare quella sensazione. La prima volta è stato molto tempo fa, ero una bambina, ero a casa con mio fratello, i nostri genitori si erano allontanati per una commissione. Io avevo cinque anni e lui sette. Fuori imperversava un temporale, tuoni, fulmini, vento forte, insomma c’era l’inferno al di là di quelle finestre e per un bambina piccola non è qualcosa di facile da gestire, ma se al tuo fianco c’è tuo fratello più grande magari la cosa potrebbe essere meno difficile. D’un tratto un fulmine cadde non troppo lontano da una centralina elettrica e la luce abbandonò le case del nostro quartiere romano della prima periferia. Ricordo ancora la sensazione che mi prese dritta alla gola, quasi volesse soffocarmi, mi sentivo spaesata, il buio mi inghiottì facendomi perdere ogni riferimento, cercai mio fratello, che avrebbe dovuto essere a pochi passi da me, ma lui non si fece trovare, lasciandomi in balia dello smarrimento. Poi mi apparse davanti al viso, mentre con una torcia si stava illuminando il volto, ridendo in modo sguaiato, solo per il gusto di farmi paura. Urlai, terrorizzata, qualcosa mi fece trovare la forza di afferrare la torcia che lui teneva fra le mani e poi, senza nemmeno rendermene conto, cominciai a picchiarlo. Non mi limitai a uno schiaffo, non mi limitai a sbattergli sul capo la torcia una, due, tre, quattro, cinque, sei volte, quella forza oscura mi fece prendere la testa di Marco e me la fece sbattere sul pavimento alcune volte. In quel momento tornarono i nostri genitori, tornò la luce e tutto il mondo mi vide coperta dal sangue di mio fratello, dalle lacrime del terrore, abbandonata da quella forza che tutto questo mi aveva fatto fare, abbandonandomi al destino di essere considerata una violenta, una pazza, senza nessuno che pensasse al fatto che fossi solo una bambina spaventata.
Un post rapido rapido, giusto per augurare a tutti una felice estate e darvi appuntamento a metà Agosto con un nuovo contenuto speciale in vista dell’uscita de L’ultima intervista e per aggiornarvi su chi saranno i primi autori intervistati per la rubrica “I passeggeri del mese” che riprenderà a Settembre.
Ciao a tutti!
La solitudine è l’animale che abita lo spazio tra la mia pelle e i muscoli che corrono poco più sotto. E’ un’inquilina scomoda, mi devasta, prende sempre più spazio e non paga mai l’affitto. Quando ho capito di essere sola era ormai troppo tardi, me ne stavo in piedi davanti a una finestra del mio appartamento di Parigi, era notte, fuori non c’erano altro che altre anime in pena come me. Il mio corpo era nudo e freddo e i miei occhi cercavano qualcosa oltre la linea dell’orizzonte, senza però essere in grado di dare una forma, una dimensione, senza concetti da trovare oltre a quella dannata linea di demarcazione fra ciò che conoscevo e l’ignoto. Proiettata com’ero verso mondi lontani non avevo compreso quanto vicina invece fosse l’arma per sconfiggere quel male che sentivo crescere dentro, la mia medicina era un cuore pulsante dentro la pancia, quella pancia che d’istinto mi aveva fatto agire e che in quei momenti, l’avessi ascoltata di più, mi avrebbe potuto salvare da quella voragine che tutto inghiottiva e non riconsegnava ai miei domani null’altro che lacrime silenziose di donna senza punti di riferimento ai quali aggrapparsi.
Io oggi non sono più sola, ho al mio fianco Marie, la figlia che da sempre desideravo e che nel modo peggiore ho avuto, il padre di questa piccola gioia non potrà più essere il suo punto di riferimento, così come non è potuto essere il mio, prima per volontà, ora per l’inevitabile conseguenza di eventi, che come troppo spesso accade sono più grandi anche delle decisioni coraggiose che prendiamo, dell’orgoglio che accantoniamo, delle urla che ingoiamo e della vita che, nonostante tutto, andrà sempre e comunque avanti.
Alto e magro, con il viso un po’ scavato, pallido e senza espressione. “E’ così che si diventa quando tutti si dimenticano di te!”, questo è il pensiero di Ruggero Loi mentre cammina nell’indifferenza generale poco distante dal Castello Estense. Fuma una sigaretta, prende boccate corte, quasi frettolose, comunque avide, sembra voglia divorarsela quella nicotina che appassisce la vita, come se la sua ne avesse bisogno ulteriore. Ruggero Loi qualche anno fa era sulle copertine di molti settimanali, ospite fisso delle rassegne letterarie estive, le librerie più prestigiose facevano a gara per presentare i suoi romanzi. Era una stella.
Un bambino passa vicino a Ruggero, cammina rapido accanto alla madre e le chiede: “Mamma, mamma, ma le stelle di giorno dove vanno?”. La madre butta gli occhi verso il cielo forse stanca di quella che con buona probabilità sarà stata l’ennesima domanda del proprio piccolo.
Dove vanno di giorno le stelle, anche Ruggero Loi se l’è posta spesso questa domanda negli ultimi tempi, rispondendosi semplicemente che per uno come lui, stella senza più luce, l’unico posto possibile fosse un’inutile mucchio di polvere sullo scaffale di una vecchia libreria dimenticata da tutti. Il telefono che non squilla mai, la mail che non riporta mai notifiche di nuovi messaggi, i vecchi amici che non suonano più alla tua porta, il tuo agente che si nega anche per un caffè; questa è l’anticamera della depressione, della bottiglia facile. I pensieri che si fanno scuri, poi neri come la notte e della luce delle stelle che furono nemmeno il ricordo resiste. Questa è l’anticamera delle cose sbagliate, quelle che fanno male, che ti fanno fare cose brutte, cose che fanno paura.
Oggi Ruggero Loi cammina con una sigaretta senza filtro tra l’indice e il medio della mano sinistra e una borsa nera molto pesante stretta nella destra. La cenere sembra nasconderne i passi lenti, pesanti, che lo portano sino a una antica biblioteca, esattamente al centro di Ferrara.
Quando cominci a fare quelle cose là, quelle che fanno paura, non fai mai nulla a caso, quando vuoi che il tuo urlo disperato sia sentito da tutti hai sempre un piano, più la tua anima è stata un giorno ruggente, più quando hai smesso di splendere urlerai e vorrai che la luce torni ancora e sia più forte di prima.
Ruggero entra nell’edificio dove una Rassegna fra poco farà parlare di sé con il bello del mistero che vuole raccontare. Lui si siede in una fila esterna, a disagio, la sua pelle è sudata, la sua bocca secca, le sue mani scosse da un leggero tremito.
Appoggia la borsa nera sotto alcune sedie ancora vuote accanto a sé, quella che stringeva nella mano destra, ricordate? La sala comincia a riempirsi, è un tutto esaurito oggi. Il pubblico delle grandi occasioni, come quello che aveva lui, una volta, così tanto tempo fa da sembrargli la storia di un altro. Approfittando della confusione si allontana. Sul palco escono alla vista di tutti giornalisti e alcuni autori, applausi. “Che bel suono le mani che si toccano…”, pensa Ruggero, ricordando il suo non ricordo dell’ultima volta in cui questa melodia fosse stata per lui. Affretta il passo verso l’uscita, mentre una bella giornalista giovane prende la parola. “Benvenuti, benvenuti!”, il pubblico esplode in un altro applauso e la giornalista si lascia sfuggire: “Grazie, questa Rassegna sarà davvero una bomba!”.
Ruggero sente queste parole e, mentre accende una delle sue fedeli senza filtro, sogghigna. La sua mano stringe un telecomando mentre ormai è fuori dall’edificio. “Sì, proprio una bomba!”.
Poi solo ombra, carne, nero e polvere di una stella che fu.
Oggi parliamo con grande piacere con Elisabetta Cametti, nata 1970 in una piccola località ai piedi del Monte Rosa. Si è laureata in Economia e Commercio e ha intrapreso la strada del marketing. Dopo circa vent’anni di esperienza in importanti multinazionali, ha scelto di dedicarsi alla sua passione di sempre iniziando così la carriera di scrittrice. Con Giunti ha pubblicato i primi due romanzi con protagonista Katherine Sinclaire, “K I guardiani della storia” e il più recente, “K Nel mare del tempo”.
Chi è Elisabetta Cametti?
Sono una donna che viaggia con due bagagli. Quello delle esperienze, che contiene la vita fino a qui vissuta: i traguardi raggiunti ma anche gli sbagli fatti, i momenti da ricordare così come le ferite subite. E quello dei sogni, in cui trovo la forza per non mollare mai.
Il tuo ultimo romanzo è “K Nel mare del tempo”, la protagonista è sempre Katherine Sinclaire, in queste pagine si conferma il forte legame con le civiltà del passato che hai voluto dare a questo tuo progetto, come già emergeva nel tuo primo lavoro “K I guardiani della storia”. Come mai questa scelta? Leggendo i tuoi romanzi si nota la ricchezza di dettagli con cui vengono descritti questi antichi popoli, ci racconti come svolgi e quanta importanza ha la attività di ricerca in tutto questo?
Mi diverte scrivere trame complesse, ricche di personaggi le cui storie si intrecciano, di misteri che mentre si dipanano conducono a nuovi enigmi, di cambi di rotta capaci di sorprendere. E ho voluto che in questa serie di romanzi emergesse una donna: Katherine. Una donna intensa, vera. L’avventura scaturisce proprio dalla volontà di unire l’alta tensione alle verità storiche, gli intrighi a luoghi inaccessibili, l’azione al sentimento. In K I guardiani della storia i protagonisti di sfondo sono gli etruschi. Per K Nel mare del tempo ho scelto il Medioevo e gli ittiti. Il Medioevo lo sentiamo seguendo le tracce di Angelica nei rifugi in cui si era nascosto Fra Dolcino, famoso eretico citato da Dante nell’Inferno, tra i seminatori di discordia. Gli ittiti nutrono la mia passione per i popoli dimenticati dalla storia. Sono vissuti tra il 1800 e il 700 a.C. in Anatolia, l’attuale Turchia. Erano abili guerrieri con smisurate brame espansionistiche ed esperti costruttori di città sotterranee. È stata l’archeologia moderna a portare alla luce templi, bassorilievi, ma soprattutto cinque biblioteche di trentamila tavolette di argilla scritte in un idioma che ha richiesto un secolo di studi per essere decifrato. L’approfondimento è una delle fasi fondamentali per la stesura di un romanzo. E anche una delle più stimolanti. Una volta scelto il periodo storico, leggo quanto disponibile sull’argomento e mi faccio aiutare da esperti. Però non studio solo la storia dei periodi trattati, ma mi affascina investigare su tutti i temi. Così se Patrick Wilde è un archeologo appassionato di nuove tecnologie, esamino gli ultimi rapporti dell’Air Force americana per l’impiego di onde radio che inviate nella ionosfera rimbalzano a terra e consentono di scoprire cavità o bunker sotterranei. Se Isaac Sion vuole capire i segreti nascosti in un dipinto antico mi documento sui metodi scientifici all’avanguardia per l’analisi delle opere d’arte. E in questi giorni sto cercando di districarmi nell’ingarbugliata rete degli hacker. Nulla è lasciato al caso e per me è importante che il lettore lo percepisca.
Kathrine Sinclaire è stata accostata a Robert Langdon, il personaggio di Dan Brown. E’ un paragone che ti piace? Quanto di te c’è in Katherine?
Dan Brown ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Significa che ha saputo interessare lettori con abitudini, esperienze e culture diverse. Non è facile, non è da tutti. Che dire? È un paragone che profuma di buono. Katherine come me vive di momenti: non guarda mai al passato, non carica il futuro di troppe attese e cerca di dare un senso al presente. Qualsiasi cosa succeda, non smette mai di sognare… perché il tempo dedicato a costruire i sogni ha la forza di rendere possibile l’impossibile. In Katherine le mie esperienze si fondono con le mie aspirazioni. Katherine è la parte di me che non vede ostacoli, che non si preoccupa delle conseguenze. La mia voce amplificata all’ennesima potenza per urlare i valori in cui credo.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
La pubblicazione di una nuova serie di thriller, con una nuova protagonista, sempre con una K nel nome. E la trasposizione cinematografica di K I guardiani della storia e K Nel mare del tempo.
L’odore non è quello della notte, non è puro, le narici sono piene anche di quella sensazione fresca e umida di un temporale che abbia da poco finito di lavare l’asfalto secco arroventato dai primi caldi estivi. Le strade sono silenziose, vuote, sembrano più grandi.
Il colpevole sarà la prima persona che uscirà trafelata da un atrio di un palazzo, dalla propria auto, dalla propria tana. La colpa di chi rompe la campana di cristallo della vita sospesa fra la frenesia e la capacità di saper respirare ancora.
Ciao a tutti! Giovedì 2 Luglio sarò a Monzuno (BO) alle ore 20.45 per l’ultima presentazione di Dreamin’ vicious, con me ci sarà Carmine Caputo e modererà l’incontro Sergio Pozzi. Vi aspetto!