Paolo Panzacchi
L'ultima stazione del mio treno

L’ultima stazione del mio treno

04/12/10 L'ultima stazione del mio treno

Nudi in Piazza Maggiore

Nudi in Piazza Maggiore
Quell’attimo in cui non sai cosa dire.

Il primo momento di silenzio mentre sei seduto di fronte a una persona che piano piano stai conoscendo è forse la parte più importante di tutto.

Come reagisci. Come reagisce. Cosa comunicate col silenzio.

Il corpo e il silenzio si fondono e riescono a raccontare storie.

Per tutto il resto è come essere Nudi in Piazza Maggiore.
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30/11/10 L'ultima stazione del mio treno

Mario

Mario
La solitudine, Mario, tu la conoscevi bene. Come la conosco bene io. Come la conoscono in molti. Come molti la conosceranno. Non la si rinnega, la si vive e basta. 

Colpa nostra?

Colpa tua?

Pensaci su.

Ti saluto così, senza formalità.

Ciao!
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25/11/10 L'ultima stazione del mio treno

Fino all’ultimo lembo di carne

Fino all’ultimo lembo di carne
Mi accendo una sigaretta, odio questo vizio, forse è l’unico che ho che mi infastidisce, che mi fa preoccupare. Mi sistemo la cravatta nera sulla mia camicia bianca stirata di fresco, mi attende una serata interessante con il mio ospite, è nel salone, mi sta aspettando. Lo raggiungo, gli sorrido, gli stringo la mano, “Accomodati pure!”, gli indico la sedia, il tavolo è già apparecchiato: me ne sono occupato personalmente, così come delle pietanze per la cena.
Mentre attendiamo che il mio collaboratore domestico ci porti l’entrèe, un delizioso sformato di zucca su una salsa di grana, con salvia abbrustolita e una riduzione al balsamico, verso un calice di bollicine al mio commensale, un Franciacorta riserva che ho fatto arrivare proprio per l’occasione.
“Bon appetit!”, lo guardo compiaciuto, attendendo il suo giudizio sulla mia cucina, prende una porzione con la forchetta argentata e la intinge nella salsa, è un ragazzo di gusto, abituato alla buona tavola: non nascondo la felicità per la mia ottima scelta. Mentre gusta il suo boccone mi guarda, d’un tratto solleva il calice, “I miei complimenti, eccellente.”, sorrido, “Oh, mio caro , mi rallegra questo tuo gradimento, sapevo che avresti apprezzato!”, ora anche io posso iniziare la mia cena.
Durante la cena lui mi racconta alcuni avvenimenti della sua esistenza, quasi debba fare colpo su di me, la cosa mi indispettisce, ma lo lascio fare, non si nega un po’ di gloria, un po’ di voglia di raccontarsi, soprattutto a chi sta per morire.
Lo ascolto con calma, la nostra cena prosegue, brindiamo ancora, probabilmente sarà l’ultimo bicchiere per questo ragazzo, lui non lo sa, ma in questo vino pregiato c’è una droga, contro la quale io mi farò un’iniezione a breve, mentre lui cadrà in un sonno profondo.
Giusto il tempo di ringraziarmi per il cibo delizioso ed ecco il suo corpo che scivola lentamente dalla sedia al parquet del mio appartamento. Mi alzo dalla mia sedia, distendo i muscoli e vado a scegliere gli strumenti per la mia arte: penso che prenderò i miei coltelli più pregiati, è raro che io li usi, questa sera ho voglia di fare le cose in grande.
Quando rientro nel salone lo vedo completamente inerme, un ghigno di soddisfazione si stampa sul mio viso, decido di spogliarlo per poter lavorare meglio sul suo corpo. La sua pelle abbronzata e i suoi muscoli mi fanno provare invidia per la sua fisicità, prendo un bisturi ben affilato e inizio un’incisione sui muscoli delle gambe e nella zone tendinee delle ginocchia in modo da inibire ogni suo possibile movimento, ogni sua possibile velleità di fuga.
Ogni volta che uccido seguo sempre lo stesso iter, sono un abitudinario in ogni cosa, nei miei omicidi c’è sempre uno schema ricorrente, una firma, ma con mia evidente sorpresa nessuno li ha mai collegati fra loro, nessuno mi ha ancora scoperto, o sospettato; questo ragazzo sarà la mia vittima numero trenta: sono molto orgoglioso del mio lavoro.
Uccido ragazzi giovani, muscolosi, nel pieno della forma fisica, soprattutto per l’odio che nutro nei confronti dei corpi perfetti e sani, non come il mio: cagionevole, fragile, anche se sono dotato di una forza che sorprende spesso anche me stesso.
Il lavoro con le sue estremità inferiori è terminato, pulisco il sangue che sgorga copioso, ripongo il bisturi nella sua preziosa custodia, la cena non mi ha ancora saziato, prima di finire decido di fare il grande salto, quello che non ho mai fatto, penso per una naturale inibizione umana, i miei occhi fissano i suoi fianchi: oso? Posso osare? In questo momento, come sempre, mi sento come Dio, penso che Dio non possa negarsi nulla, quindi decido di osare, mi nutrirò di lui.
Il mio sguardo si trasforma, lo vedo riflesso nello specchio su una parete del salone, i miei occhi luccicano di vizio e perversione, mi avvicino lentamente, poi con uno scatto deciso affondo i miei denti nella sua carne, con forza, con violenza, ma da questo punto in poi nulla andrà come come sarebbe dovuto andare.
Il ragazzo urla, si è svegliato, qualcosa con il mix di droghe che gli ho somministrato non ha funzionato, sono sorpreso, spaventato: per la prima volta ho fatto un errore.
“Cosa mi stai facendo? Sei un pazzo!!” è ovviamente sconvolto, io sono al suo fianco, bloccato, incapace di una reazione, si è rotto lo schema e non me ne rendo ancora conto, il ragazzo prova ad alzarsi ma si rende subito conto della situazione delle sue gambe, devo subito alzarmi e prendere la mia pistola, devo ucciderlo immediatamente o sarò perduto.
Mentre provo ad alzarmi un colpo violento mi prende in pieno viso, la mia vittima mi ha sferrato un destro potente e ben assestato, cado all’indietro, stordito, la custodia grande dei miei coltelli cade a terra vicina a lui, mi lancio subito a recuperarla prima che lui possa estrarne uno: troppo tardi. Ne brandisce uno, uno dei più letali, la situazione precipita, lottiamo, ma lui ha la meglio, un fendente mi colpisce al collo, il sangue scorre sui miei vestiti, la mia ira è incontrollabile, riesco a colpirlo e a stordirlo per un attimo, una sciarpa gialla attira la mia attenzione: è del ragazzo. E’ la mia unica possibilità, gliela stringo al collo, ma lui si riprende, la nostra lotta continua, furiosa per alcuni istanti, finché finalmente cede, l’ultimo respiro lascia il suo corpo per sempre.

“Il resto è storia recente, caro commissario!”, l’uomo di fronte a me ha ascoltato pazientemente e in silenzio la mia ricostruzione dei fatti, ho deciso di confessare quando ho capito che non c’era più modo di uscirne, quando è stata mostrata quell’unica prova schiacciante, quell’oggetto che sancirà la mia condanna: quella dannata sciarpa gialla.
Quando ho gettato il corpo del ragazzo nel cassonetto ho commesso il fatale errore di pulirmi il sangue dal collo con quella sciarpa, con l’arma del delitto, purtroppo avevo perso lucidità nella lotta feroce di qualche istante prima, già intuivo che sarei stato vicino alla fine, ma non sono stato in grado di porvi rimedio. Forse ho voluto che mi trovassero, che capissero chi fossi e cosa avessi commesso in questi otto anni: ho confessato tutti i miei trenta omicidi, l’ubicazione dei poveri resti delle mie vittime e le modalità dei loro omicidi. Mi sono arreso, con piacere, a questo commissario così intelligente e scaltro, certo, ma anche aiutato da due miei grossolani errori.
“Direi che la nostra chiacchierata mio caro commissario è finita, le ho confessato tutto, quindi ora vorrei conferire con il mio legale e fumarmi una sigaretta in santa pace.”, lui mi guarda interdetto, “Scusi, ma crede di essere nella condizione di dettare legge? Non scherziamo, voglio sapere il perché? Mi dica cosa l’ha spinta a commettere queste brutalità!”, chiudo gli occhi e sospiro, “Commissario, avevamo iniziato così bene e ora lei mi offende?! No, ora non avrà più una mia parola fino all’arrivo del mio legale, sono spiacente!”, se ne va sbattendo i pugni sul tavolo.
Sono solo nella stanza degli interrogatori, mi accendo una sigaretta, quell’uomo non sa di aver commesso un errore imperdonabile.
Finisco di fumare e guardo la sciarpa gialla davanti a me, mia condanna e mia salvezza. Troveranno il mio corpo impiccato al termosifone, concludere la mia vita in questo modo mi dispiace, ma al momento non vedo vie d’uscita, pagherò i miei errori, ma non è della giustizia degli uomini che vado in cerca.

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17/11/10 L'ultima stazione del mio treno

Tutto, niente, quasi tutto.

Tutto, niente, quasi tutto.
Tutto si indossa.

Vestiti.

Occhiali.

Maschere.

Anche il proprio nome e la propria vita.

Ma come tutto, anche la propria vita e il proprio nome bisogna “saperli portare”.
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16/11/10 L'ultima stazione del mio treno

Nebbia e nicotina

Nebbia e nicotina
Via D’Azeglio con la nebbia, il salotto di Bologna avvolto in una coltre fredda e fastidiosa. Camminarci in mezzo è come essere in apnea. Griffe costose. Ragazzine sboccate imbalsamate nei loro abiti con firma. Professionisti che si danno un tono, solo perchè hanno un cappio colorato al collo e una ventiquattr’ore. La stanchezza che ognuno di noi sente è perchè queste cose le avverte, magari non distintamente, ma sa che qualcosa non va come dovrebbe. 
Mi accendo una sigaretta di fronte ad un locale: giovani che fanno aperitivi, vecchi che fanno aperitivi.
Arrivi sempre a quel punto in cui ti chiedi cosa ti manca, cosa ti abbia fatto diventare uno sputasentenze, cosa ti abbia portato a scrivere, cosa invece ti abbia fatto smettere di prendere la vita con quella leggerezza che sa di incoscienza, ma così non è! Perchè prendere la vita leggermente non vuol dire vivere a spanne, non vuol dire che se “campi a quarti d’ora”, come me, sei un irresponsabile. Vuol dire che la vita scappa via, vuol dire che te la vuoi tenere stretta, vuol dire che ne vuoi cogliere ogni attimo. Vuoi scriverlo. Vuol dire che non ti imbarazzi a stare fermo in una strada a respirare nicotina e nebbia e goderti le vite degli altri. La tua, di vita, va bene così. Ti senti vivo e pieno di energia anche solo attraverso gli occhi e le sensazioni che provi.

Nebbia e nicotina.

E tanti auguri al moralismo. 

E tanti auguri al qualunquismo. 

E tanti auguri a chi ha il sorriso da ebete.

E tanti auguri a chi ci sta crepando in questo paese di merda.
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15/11/10 L'ultima stazione del mio treno

Il mio occhio sinistro

Il mio occhio sinistro
Un occhio non è solo un organo. 

Un occhio non è solo uno specchio.

Un occhio non è solo il colore della sua iride.

Un occhio non si cela dietro un occhiale.

Gli occhi sono quello che tu decidi siano.

Il mio occhio destro pensa.

Il mio occhio sinistro no. 

Il mio occhio sinistro è cattivo.
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13/11/10 L'ultima stazione del mio treno

Piove

Piove

Quando piove te ne vai. Guardi indietro e te ne vai. Cosa vedi? Questo è il problema. L’impossibilità di essere obiettivo nel momento della tua fuga. Spesso, le fughe, sono atti vili, sono atto di rinuncia, alzate di spalle,.


Certe volte, invece, è solo una presa d’atto, della totale mancanza di prospettive. 


Fai la valigia. Piove merda dal cielo.


Fai la valigia. Piovono lacrime dal tuo presente.


Fai la valigia. Piovono parole dalla tua bocca.


Fermati, quando non hai più nulla da dire.

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12/11/10 L'ultima stazione del mio treno

Viaggi in disordine

Viaggi in disordine

Qua non si parla di viaggi di relax, qua non si parla di vacanze. Qua si parla d’altro: di cambiamento, di voglia di esplorare, di ricostruirsi, di cambiare, di trovarsi e di trovare.


Sì, perchè io la penso proprio così: solo con un viaggio, solo partendo da un punto A e girando nell’orizzonte che scegliamo di vedere si possono rimettere a posto le cose che abbiamo dentro, le cose in disordine, le vite in disordine.


Ci sarebbe poi da discutere sul concetto di ordine: ordine e disciplina, ordine morale, ordine mentale, ordine della propria scrivania, della propria vita, del cazzo che ti pare.


Ma l’ordine vero, che cos’è? Tutte le cose al loro posto? Un’agenda perfettamente compilata? Un planning eccellente e attendibile al millesimo di secondo? 


NO!


L’ordine è avere un orizzonte.


L’ordine è sapere come ti chiami ad ogni ora del giorno.


L’ordine è svegliarsi nel letto giusto.


L’ordine è smettere, ma ripartire.


L’ordine sei tu. 


Il disordine sono gli altri.

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11/11/10 L'ultima stazione del mio treno

L’ultimo passo

L’ultimo passo
La pioggia bagna il mio cappotto mentre scendo dal taxi. Pago il dovuto al mio autista, mentre lui scarica dal portabagagli le mie valige. “La ringrazio!”, lui mi sorride, “Faccia buon viaggio!”. Mi incammino verso l’entrata dell’aeroporto di Bologna, come al solito sono in anticipo: il mio check-in aprirà fra mezz’ora. Oggi è il 4 Gennaio e fra meno di tre ore la mia vita cambierà. 

Decido di attendere prima di entrare nel terminal: mi accendo una sigaretta. E’ l’ultima del mio pacchetto. Ho deciso di smettere: questa volta faccio sul serio. Credo. Aspiro profondamente, voglio godermela. Per la vita che andrò a fare il fumo non mi servirà. Spero. 

Lancio lontano il mozzicone, non ne ho fumata neanche metà, ed entro nel terminal. Guardo subito il tabellone del mio volo, noto che il check-in è appena cominciato. Mi avvicino: stranamente sono il primo. La hostess mi saluta gentilmente, ricambio con poco garbo, ultimamente non sorrido, ho un unico tono di voce: seccato e scostante. 

Completo le operazioni, imbarco le mie valige e tengo con me il mio bagaglio a mano: la valigetta del laptop. 

Prendo la scala mobile per andare al secondo piano dove ci sono i gate per gli imbarchi, di fronte a me c’è un bar: è carino, moderno, mi piace. Entro e chiedo un caffè. 

Il caffè è sempre una delle cose che più mi mancano quando vado all’estero. Più del cibo, più dei panorami, più delle vie della mia città, più dei miei genitori e di tutte quelle persone inutili che mi sono trascinato dietro per anni. Un buon caffè è quello che mi manca. Decido di assaporarlo: sorsi piccoli, occhi chiusi. 

Chiudere gli occhi, però, non è stata una buona idea: la mia mente mi fa vedere cose che non voglio ricordare. Finisco, indispettito, in un unico sorso quello che rimane nella tazzina. Tutto è la rovina di tutto. Questa è una frase che da qualche tempo mi ripeto. 

Scappo da questa vita come un amante scoperto che fugge dal retro: con vergogna, con dolore, con il senso del piacere rimasto frustrato. 

Vado a sedermi di fronte all’ingresso del mio gate. Ho la testa bassa, la barba e i capelli lunghi. Indosso un cappotto nero, molto elegante, un maglione di cachemire grigio, camicia azzurra, pantalone marrone molto stretto e scarpe eleganti nere. Ho un bellissimo paio di occhiali neri, montatura grossa: un affettuoso regalo. Ho deciso di portare con me alcuni oggetti per ricordare: questi occhiali, un libro, una sciarpa, un’agenda e una coperta di lana. 

Tutte le altre cose, eccetto i miei vestiti, le ho regalate o buttate via. La scorsa notte ho bruciato i quattro libri che ho scritto e circa un centinaio fra racconti e poesie. Ho giurato che non scriverò mai più! 

Fra un’ora il mio volo decollerà. Sono estremamente nervoso. Mi mangio le unghie. Mi accarezzo la barba, i capelli, quasi come a farmi delle coccole affettuose. Sono incazzato, furioso, dentro di me sono assolutamente fuori controllo. 

Improvvisamente ho un conato di vomito, devo assolutamente correre in bagno! Dopo pochi secondi mi ritrovo in ginocchio davanti a una tazza bianchissima e sorprendentemente pulita: rimetto. Mi contorco, lo stomaco mi fa un male assurdo, sembra quasi che mi stiano prendendo a pugni. Assieme al vomito escono lacrime e singhiozzi, sono crollato, completamente: lo sospettavo. 

Dopo un paio di minuti riesco a darmi un contegno. Metto il viso sotto il getto dell’acqua fredda di un lavandino. Respiro. Esco dal bagno e vedo che stanno imbarcando il mio volo. La mia voce, per una volta, più veloce dei miei pensieri: “E sia!”. Fra poco, probabilmente, senza neanche rendermene conto atterrerò a Londra Gatwick. 

Cinquanta passi mi separano da un’altra vita. Alla mia destra un bidone della spazzatura: getto via il mio cellulare e la mia sim card. Mi fermo per un istante, una lieve esitazione, forse una strana sensazione. 

Trenta passi. In lontananza rumore di tacchi. Una donna che corre. 

Venti passi. Sento urlare verso il fondo del lungo corridoio. 

Dieci passi, documenti in mano. Il mio nome urlato come non ho mai sentito. 

Cinque passi. Due anime fanno a pugni dentro la mia testa. “E’ troppo tardi!”, dice una, “La ami!”, dice l’altra. 

Un passo e niente sarà come prima. Quello che i miei occhi avranno davanti da ora sarà il frutto dell’orgoglio o di quel che di umano è rimasto in me.
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11/11/10 L'ultima stazione del mio treno

Linee ferroviarie

Linee ferroviarie

Mi sono seduto su una panchina, con il biglietto del treno in mano, con i sogni dietro gli occhi e con tutti i miei dubbi, lì, accanto a me, sulla mia valigia.
Oggi parto per un viaggio, salirò sul mio treno, fino alla sua ultima stazione. Voglio ricominciare a scegliere, a decidere, ad avere peso specifico con l’altra parte di  me stesso.
Inseguito dai miei perchè, rincorro i miei perchè no.

Il treno è arrivato, guardandomi attorno salgo, trovo il mio posto e mi tolgo la giacca: amo viaggiare comodo.

Le carrozze iniziano a muoversi, siamo partiti, voglio la mia stazione, voglio le mie risposte. Accendo il mio laptop, ho una storia da scrivere, la mia? Quella di tutti noi?

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Fazzoletto da tasca colorato, occhiali sulla punta del naso per darmi un tono, centomila idee nelle tasche e bollicine nel bicchiere. Questo sono io.
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